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DiRaffaele Boccia

Condominio: è vietato esporre nella bacheca il nome dei condomini morosi

La disciplina del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, prescrivendo che il trattamento dei dati personali avvenga nell’osservanza dei principi di proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i quali i dati stessi sono raccolti, non consente che gli spazi condominiali, aperti all’accesso a terzi estranei al condominio, possano essere utilizzati per la comunicazione di dati personali riferibili al singolo condomino.

Pertanto – fermo il diritto di ciascun condomino di conoscere, anche su propria iniziativa, gli inadempimenti altrui nei confronti della collettività condominiale – l’affissione nella bacheca dell’androne condominiale, da parte dell’amministratore, dell’informazione concernente le posizioni di debito del singolo partecipante al condominio, risolvendosi nella messa a disposizione di quel dato in favore di una serie indeterminata di persone estranee, costituisce un’indebita diffusione, come tale illecita e fonte di responsabilità civile, ai sensi degli artt. 11 e 15 del codice.

Sull’amministratore del condominio, pertanto, grava il dovere di adottare le opportune cautele per evitare l’accesso a quei dati da parte di persone estranee al condominio.

Corte di Cassazione, sezione II civile, ordinanza 4 gennaio 2011, n. 186

DiRaffaele Boccia

Quando sorge il diritto del mediatore immobiliare alla provvigione

In materia di intermediazione immobiliare, quando un affare può dirsi concluso facendo sorgere il diritto dell’intermediario (agente immobiliare) a ricevere il proprio compenso?

Per “conclusione dell’affare”, dalla quale a norma dell’art. 1755 c.c. sorge il diritto alla provvigione del mediatore, deve intendersi il compimento di un’operazione di natura economica generatrice di un rapporto obbligatorio tra le parti, di un atto cioè in virtù del quale sia costituito un vincolo che dia diritto di agire per l’adempimento dei patti stipulati o, in difetto, per il risarcimento del danno; sicché, anche la stipulazione di un contratto preliminare di compravendita di un immobile è sufficiente a far sorgere tale diritto, sempre che si tratti di contratto validamente concluso e rivestito dei prescritti requisiti e, quindi, della forma scritta richiesta “ad substantiam” (art. 1350 e 1351 c.c.).

L’affare si ritiene concluso quando il consenso è stato legittimamente prestato, ossia quando, grazie all’intervento del mediatore, le parti abbiano posto in essere il vincolo giuridico produttivo delle conseguenze di cui sopra; si è anche sostenuto che l’affare può dirsi concluso quando sussista la fattispecie necessaria ad operare la modificazione giuridica idonea a realizzare l’interesse delle parti.

In giurisprudenza si è precisato che il significato di “affare” va ascritto a qualsiasi operazione di contenuto economico che si risolva in utilità di carattere patrimoniale per le parti; esso deve intendersi in senso generico ed empirico, come operazione generatrice di un rapporto obbligatorio tra le parti, ancorché articolatasi in una concatenazione di più atti strumentali, diretti, nel loro complesso, a realizzare un unico interesse economico. Altri hanno evidenziato come la realizzazione dell’interesse economico delle parti possa consistere nella conclusione di più contratti collegati o di negozi unilaterali, ovvero nella stipulazione di un contratto preliminare quando se ne possa chiedere l’esecuzione specifica, laddove non è sufficiente la semplice proposta irrevocabile di contratto.

L’entità della provvigione è normalmente commisurata al valore economico dell’affare. Per prassi, al momento dell’incarico al mediatore, questi fa sottoscrivere all’interessato una scrittura privata in cui si determina e conviene l’ammontare della provvigione, spesso indicato in forma percentuale rispetto al valore dell’affare da concludersi.

Ai fini del riconoscimento del compenso al mediatore, è necessario che colui che abbia messo in relazione due o più parti per la conclusione di un affare sia regolarmente iscritto all’Albo dei mediatori professionali mentre è sufficiente a far sorgere il diritto al compenso che l’iscrizione sia intervenuta dopo l’inizio dell’attività di mediazione e finché essa sia in corso, e tuttavia in questo caso la provvigione è dovuta solo da quel momento. Ne consegue che chi abbia svolto attività di intermediazione è tenuto a restituire l’acconto percepito quando ancora non possedeva la qualifica di mediatore professionale per mancanza di iscrizione nell’apposito albo, non bastando la sopravvenienza della suddetta qualifica nel corso del rapporto di mediazione, né l’unitarietà del compenso spettante al mediatore a legittimare “ex post” un pagamento non consentito dalla legge al momento della sua effettuazione.

Il mediatore ha diritto alla provvigione anche se non abbia partecipato a tutte le trattative ed anche quando l’affare sia stato concluso dopo la cessazione dell’incarico (e anche se non abbia ricevuto un formale incarico da una delle parti), purché vi sia un nesso causale fra l’attività da lui svolta e la conclusione dell’affare.

Fermo restando che le parti sono libere di concludere o meno l’affare, pur se l’affare proposto dal mediatore è del tutto conforme alle richieste originariamente avanzate (e in questa seconda ipotesi spetta al mediatore solo il rimborso delle spese, ai sensi dell’art. 1756), il mediatore ha diritto alla provvigione anche se le parti sostituiscono altre a se stesse nella stipulazione del contratto, e una volta concluso l’affare, non rilevano eventuali ripensamenti delle parti.

La norma in esame
Art. 1755 codice civile
Il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l’affare è concluso per effetto del suo intervento.
DiRaffaele Boccia

La FARO Assicurazioni è stata commissariata

Con provvedimento ISVAP n.ro. 2871 del 24 Gennaio 2011 la società FARO ASSICURAZIONI E RIASSICURAZIONI S.p.A è stata Commissariata perchè posta in Amministrazione Straordinaria.

Il dott. Giovanni De Marco, ai sensi dell’articolo 233, comma 1, del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è stato nominato commissario straordinario per l’amministrazione di Faro – Compagnia di Assicurazioni e Riassicurazioni s.p.a. con sede in Roma, Viale Parioli 1/3.

L’avv. Andrea Grosso, il dott. Alberto De Nigro e l’avv. Riccardo Szemere sono stati nominati, ai sensi dell’articolo 233, comma 1, del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, componenti del comitato di sorveglianza di Faro – Compagnia di Assicurazioni e 2 Riassicurazioni s.p.a. con sede in Roma, Viale Parioli 1/3.

L’Avv. Andrea Grosso è stato nominato presidente del comitato stesso.

L’Amministrazione Straordinaria (disciplinata dagli artt.231 e ss. del codice delle assicurazioni private) è il regime cui viene sottoposta l’impresa di assicurazioni a carico della quale sono state rilevate dall’I.S.V.A.P. (Istituto di Vigilanza sulle Assicurazioni Private) gravi irregolarità amministrative e gestionali.

L’Isvap nomina uno o più commissari ed un Comitato di sorveglianza per l’amministrazione straordinaria al fine di risanare l’impresa o di porla in liquidazione coatta.

I commissari straordinari provvedono ad accertare la situazione aziendale, a rimuovere le irregolarità e ad amministrare l’impresa nell’interesse degli assicurati e degli altri aventi diritto a prestazioni assicurative.

Durante la fase di amministrazione straordinaria, che è una situazione eccezionale volta al risanamento dell’impresa e che può durare, salvo eccezionali proroghe, al massimo un anno, i contratti assicurativi restano, pertanto, normalmente in vigore.

N.B.: successivamente la Faro Assicurazioni è stata posta in liquidazione coatta amministrativa, come meglio descritto in questo post

DiRaffaele Boccia

Certo che il condomino può usucapire !

Pregiatissimo Avv. Boccia,
un condomino ha installato circa venti anni fà un serbatoio in un sottoscala condominiale appartente a tutti i condomini.
Oggi gli è stata chiesta la rimozione, ma il condomino vanta di averne usucapito il diritto.
Pertanto le chiedo: è possibile alterare la destinazione d’uso di un bene comune? E’ possibile che questo condomino ne usucapisca il diritto? Cosa si può fare per fargli rimuovere il serbatoio? Esiste qualche recente sentenza della Cassazione in merito?
Ringraziandola anticipatamente per la Sua disponibilità e professionalità, le porgo distinti saluti. (Michele)

Salve.
Di fronte alla condotta del singolo condomino che inizi ad usare la cosa comune in maniera esclusiva è sempre buona regola che gli altri condomini, anche tramite l’amministratore, formalizzino una chiara ed inequivoca contestazione, con lettera raccomandata ovvero con atto giudiziario.

In caso contrario, ci si può trovare di fronte a brutte sorprese, come nel caso da Lei prospettato, in quanto, in presenza di un comportamento durevole e pacifico posto in essere dal singolo condomino, tale da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini sulla cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui, ben può configurarsi l’usucapione in favore di questi.

Essa si matura, nel caso da Lei proposto, con il decorso di venti anni di possesso pacifico e continuo.

D’altra parte, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei condomini non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso “ad usucapionem”, e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte degli altri condomini, risultando per converso necessario, ai fini dell’usucapione, oltre la prova del decorso del ventennio, la manifestazione del dominio esclusivo sulla “res” da parte dell’interessato attraverso una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene.

In altre parole, egli deve dimostrare di averne goduto in via esclusiva per vent’anni, impedendo agli altri ogni atto di godimento o di gestione.

Per fargli rimuovere il serbatoio, sarà dunque necessario instaurare un giudizio civile in tal senso in cui, ad esempio, si tenti di dimostrare che non è ancora decorso il tempo necessario ad usucapire, ovvero che tale possesso trae origine da un atteggiamento di tolleranza degli altri condomini, dettato, ad esempio, da rapporti di amicizia e di buon vicinato. E’ facile prevedere che il condomino approfitterà di tale giudizio per sentir dichiarata l’intervenuta usucapione in suo favore.

Se non sono decorsi venti anni, consiglio di inviare immediatamente un atto col quale lo si inviti alla rimozione (lettera o citazione).

DiRaffaele Boccia

INPDAP: spetta al dipendente pubblico la tredicesima della reversibilità

Da più persone mi giunge la stessa domanda: se al titolare di pensione di reversibilità, che è ancora dipendente pubblico, spetti o meno la tredicesima sulla pensione.

L’INPDAP non la riconosce, richiamandosi all’art. 97 del D.P.R. 1092/73 nel quale si legge che “Al titolare di pensione o di assegno rinnovabile che presta opera retribuita alle dipendenze dello Stato, di amministrazioni pubbliche o di enti pubblici, anche se svolgano attività lucrativa, non competono la tredicesima mensilità e l’assegno di caroviveri per il periodo in cui ha prestato detta opera retribuita“.

Su questa norma è intervenuta la Corte costituzionale (con sentenza 18-27 maggio 1992, n. 232), dichiarandone l’illegittimità nella parte in cui non determina la misura della retribuzione, oltre la quale non compete la tredicesima mensilità.

L’INPDAP fa orecchie da mercante e continua ad applicare questa norma, ritenendola ancora valida fino ad un intervento del legislatore.

Tuttavia, sembra piuttosto consolidato l’orientamento delle Corti dei Conti territoriali che affermano che, in seguito alla sentenza della Corte costituzionale, “essendo venuto meno il divieto fissato dal citato art. 97, deve riconoscersi il diritto alla percezione di una doppia tredicesima mensilità durante il periodo di prestazione di opera retribuita“.

Si consiglia, pertanto, di non desistere e di far valere le proprie ragioni con ricorso alla Corte dei Conti.