Con recente pronuncia, la Corte di Cassazione (sez. II Civile, sentenza 6 luglio – 30 novembre 2017, n. 28758) ha ribadito il principio secondo cui incombe su chi impugna il testamento l’onere di provare che il testatore fosse incapaci di intendere e volere al momento del compimento dell’atto.
Secondo il consolidato orientamento della Corte l’apprezzamento del giudice di merito circa l’incapacità di intendere e di volere costituisce indagine di fatto e valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità, se fondata su congrua motivazione, immune da vizi logici ed errori di diritto. (Cass. n. 162/1981).
Come la Cassazione ha precisato, tale giudizio deve necessariamente risultare dall’esame coordinato di numerosi elementi e l’adeguatezza della motivazione del giudice del merito deve essere vagliata con riferimento all’insieme degli stessi, nonché alle difese delle parti, al fine di verificare che, nel suo complesso, il giudizio risulti adeguatamente e concretamente giustificato (Cass. 23900/2016), mentre appare al riguardo irrilevante la distinzione tra testamento olografo e testamento raccolto da notaio, non mutando la nozione di incapacità naturale del testatore, che postula la esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del “de cuius”, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi.
Considerato inoltre che lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a colui che impugna il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente (nel qual caso è compito di chi vuole avvalersi del testamento dimostrare che esso fu redatto in un momento di lucido intervallo) (Cass. n. 8079/2005).
Orbene, la Cassazione ha ritenuto che la Corte d’Appello ha dato ampiamente conto in motivazione degli elementi in forza dei quali ha ritenuto che l’attore in impugnazione non abbia assolto all’onere di fornire la prova rigorosa dell’incapacità di intendere e di volere della de cuius al momento della redazione della scheda testamentaria.
Ed invero, seppure il certificato del medico curante prodotto attestava che in epoca prossima alla redazione del testamento la de cuius era affetta da fenomeni patologici gravi, che determinavano l’impossibilità per la medesima di compiere da sola gli atti quotidiani della vita, tale giudizio medico, ben potendo ritenersi riferito alle incombenze squisitamente materiali e dunque ad una compromissione afferente la sfera dell’integrità fisica e non anche psichica, secondo la adeguata valutazione del giudice di merito, non implica di per sé la prova, a quella data, di un decadimento tale da integrare la carenza della capacità di intendere e di volere.
Il giudice di merito ha altresì dato rilievo alle dichiarazioni rese dall’assistente sociale, la quale ha dichiarato che nell’ottobre 1999 la testatrice aveva risposto correttamente alle domande riguardanti la sua vita e quotidianità, risultando invece volutamente evasiva su temi che non intendeva affrontare, traendo da tali dichiarazioni, con valutazione di merito coerente ed adeguata, la conclusione di una – sicura consapevolezza in capo alla de cuius della propria condizione economica e della permanenza di capacità e volontà di autodeterminazione.
Non appare dunque ravvisabile né la dedotta violazione degli artt. 591 e 2697 c.c.(primo motivo), in relazione alla nozione di incapacità naturale quale desumibile dall’art. 591 comma 1 n. 3) c.c., ed alla corretta attribuzione a colui che impugna la scheda testamentaria del relativo onere della prova, né la dedotta carenza motivazionale (quinto motivo) posto che la Corte ha fondato la sua statuizione sulla complessiva valutazione degli elementi istruttori, con apprezzamento di merito logico ed adeguato, ed in quanto tale non censurabile nel presente giudizio.
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