Se una persona attualmente sposata con figli intende iniziare un’attività lavorativa dipendente in Svizzera e anche portare la propria residenza fiscale, può incorrere nel problema del domicilio fiscale inteso come il luogo in cui una persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi anche di carattere affettivo familiare. Questa concetto di legame effettivo sussiste qualora la persona abbia mantenuto in Italia i propri legami familiari o il centro dei propri interessi patrimoniali e sociali. Ma se questa persona divorzia ed ottiene l’affidamento congiunto dei figli, continua ad avere lo stesso problema?
La materia risulta regolata dalla Convenzione stipulata tra il Governo italiano e il Consiglio federale svizzero stipulata per evitare le doppie imposizioni (Roma, 28 aprile 1978) nonché dalla legislazione italiana (Tuir e codice civile).
Le norme convenzionali, ove esistenti, prevalgono sempre sulla legislazione nazionale, benché le norme della prima debbano essere interpretate con riferimento alle leggi interne dello Stato contraente, salvo che il contesto non richieda altrimenti.
In particolare, per quel che qui interessa, la Convenzione stabilisce (art.15), in materia di redditi da lavoro subordinato, che le remunerazioni che un residente in Italia riceve in corrispettivo di una attività dipendente svolta in Svizzera sono imponibili soltanto in Svizzera se:
a) il soggetto soggiorna in Svizzera per almeno 183 giorni nel corso dell’anno fiscale considerato; e
b) le remunerazioni sono pagate da o a nome di un datore di lavoro che è residente in Svizzera; e
c) l’onere delle remunerazioni è sostenuto soltanto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha in Svizzera.
Dunque, dobbiamo ritenere che il reddito prodotto in Svizzera venga assoggettato ad imposizione fiscale solo in detto Stato certamente nel caso in cui possa assumersi che la persona fisica possa considerarsi a tutti gli effetti residente nella Confederazione svizzera.
Diversamente, quando il soggetto mantenga la propria residenza o domicilio in Italia, per il principio posto dall’art.3, comma 1 Tuir [1], il suo reddito, pur se generato all’estero, sarà assoggettato all’imposizione italiana laddove non ricorrano i requisiti indicati innanzi ovvero emerga il carattere fittizio del domicilio all’estero.
Difatti, l’art.2 Tuir prevede che “si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”.
L’Amministrazione finanziaria esegue un continuo monitoraggio dei rapporti che il soggetto mantiene in Italia, indipendentemente dalla presenza fisica e dalla sola attività lavorativa, al fine di scongiurare emigrazioni puramente fraudolente.
Elementi significativi, al fine di considerare che la sede principale degli affari ed interessi si trova, in realtà, nel territorio dello Stato italiano, sono: il fatto che il soggetto dispone di una abitazione, ivi mantiene una famiglia, accredita i propri proventi, dovunque conseguiti, possiede beni, anche mobiliari, partecipa a riunioni d’affari, riveste delle cariche sociali, ecc..
A ciò deve aggiungersi che la Confederazione svizzera rientra tra gli Stati aventi regime fiscale privilegiato, per quali l’art.2, comma 2-bis del Tuir pone una presunzione semplice di residenza fiscale all’interno del Territorio italiano, salva prova contraria a carico del cittadino.
In altri termini, in caso di trasferimento in Svizzera (come in ogni altro a regime fiscale privilegiato tra quelli indicati nell’apposito decreto ministeriale), il detto trasferimento si presume “fittizio” restando a carico del contribuente la prova di dimostrarne l’effettività.
Nel caso che ci occupa, alla luce delle interpretazioni rese dalla giurisprudenza prevalente, per domicilio deve intendersi il centro dei propri affari e, prescindendo dalla presenza fisica del soggetto, esso è caratterizzato dalla volontà di stabilire e conservare in quel luogo la sede principale dei propri affari ed interessi, intesi non solo come rapporti di natura patrimoniale ed economica, ma anche quelli morali, sociali e familiari.
In particolare, la Cassazione (sezione tributaria) ha ritenuto la residenza fiscale in Italia di un soggetto, pur se iscritto all’AIRE e esercente attività di lavoro autonomo all’estero, la cui famiglia abbia mantenuto la dimora in Italia durante l’attività lavorativa all’estero, così come qualora emerga che il soggetto interessato ha in Italia mantenuto il centro dei suoi affari ed interessi.
Venendo più specificamente al quesito in esame, va precisato che la separazione coniugale o il divorzio potrebbero essere fittiziamente precostituiti al fine di simulare e rafforzare l’intervenuta interruzione dei rapporti familiari, strumentale alla dimostrazione che più nessun legame di natura personale colleghi un certo soggetto con un certo territorio.
Dunque, il solo fatto di essersi separati dal coniuge o aver divorziato non è chiaramente sintomatico del venir meno di questi rapporti, dovendo essere accompagnato da ulteriori elementi che ne rafforzino la credibilità.
La riferita circostanza dell’affidamento dei figli minori, che si presume si trasferiscano all’estero con il genitore affidatario, e l’effettività di questo trasferimento (iscrizione dei figli a scuola, intreccio di relazioni di questi con persone del Paese estero, ecc.), sono buoni indici per escludere la fraudolenza del trasferimento.
Pertanto, queste situazioni (separazione/divorzio), di per sé, non sono sufficienti ad avvalorare la credibilità del trasferimento, qualora possano ravvisarsi comportamenti tali da far indurre che le relazioni familiari non si siano effettivamente interrotte.
Piuttosto, quasi paradossalmente, separazione e divorzio potrebbero costituire la prova stessa dell’intento fraudolento laddove si scopra che a questi provvedimenti di natura giudiziale non faccia seguito un corrispondente univoco comportamento dei soggetti interessati: l’Amministrazione Finanziaria potrebbe essere maggiormente “attenta” ad una separazione tra coniugi solo documentale a cui non corrisponda una condotta degli stessi conforme a questa decisione. Sarebbe, invero, poco credibile che il marito, esercente attività lavorativa all’estero, al rientro in Italia continuasse a domiciliare presso la vecchia abitazione coniugale.
Sotto tale profilo, sarebbe opportuno locare un immobile diverso e dimostrarne l’effettivo utilizzo nei periodi di rientro in Italia, anche solo per ospitare i figli durante l’esercizio del diritto di visita.
Ben più significativo, invece, nel senso che qui interessa, sarebbe l’affidamento degli stessi al coniuge “emigrato” con iscrizione degli stessi presso istituti scolastici della città di residenza estera del padre, rimanendo la madre in Italia.
Alla stessa maniera, intrattenere in Italia rapporti di natura economica (ad esempio, con istituti bancari, caratterizzandoli da una molteplicità di movimentazioni) o mantenere ruoli o partecipazioni in società attive in Italia lascia presumere il godimento in patria di almeno una parte del reddito prodotto all’estero, secondo la giurisprudenza (e non meno, l’Amministrazione Finanziaria), e, dunque, il mantenimento in Italia del domicilio e della residenza del contribuente.
La risposta, dunque, al quesito proposto è di segno negativo.
La separazione o il divorzio non sono elementi che autonomamente portano a ritenere come credibile (nel senso anzidetto) il trasferimento della residenza fiscale all’estero, soprattutto se non accompagnati da elementi significativi ed univoci di volontà di interrompere i rapporti familiari.
[1] In base a questa norma, i soggetti residenti in Italia sono assoggettati ad imposizione nel nostro Paese per i redditi ovunque prodotti.
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